Lapilli nr.29 - Dicembre 2011

mercoledì 23 dicembre 2009

Inquinano da secoli, il conto lo paghino i ricchi

Simone Pieranni Il Manifesto

PECHINO - Copenhagen è distante dalla Cina, non solo geograficamente. Cambiamento climatico a Pechino vuol dire lo squarcio azzurro dopo giorni di grigio acido, inquinato, di traffico snervante, sempre di più, e delle consuete carrette cariche di carbone che affollano gli hutong, i vicoli formati dal susseguirsi delle abitazioni tradizionali. In attesa di ridurre le emissioni, ci si ripara dal gelo con ogni mezzo. Carbone che si alza e si confonde con la polvere dei mille cantieri aperti, con altri gas e tutto quanto è portato dall'industrializzazione cinese.
Un processo enorme ma recente: per questo risolvere la delicata questione climatica è responsabilità dei paesi ricchi. Che inquinano da secoli, mica da trent'anni: «Noi faremo quello che possiamo, ma tocca ai paesi industrializzati impegnarsi più degli altri» conclude laconicamente un cinese su un forum di discussione on line.
Copenhagen è distante, ci pensino i politici, è la sintesi. D'altronde a impegnarsi ci sono i numeri uno e i futuri potenziali leader. Li Keqiang - che le poche indiscrezioni politiche pechinesi danno come avversario diretto e agguerrito di Xi Jinping, per raccogliere l'eredità di Hu Jintao e inaugurare la quinta generazione - è a capo del Consiglio cinese per la cooperazione internazionale su ambiente e sviluppo, mentre Wen Jiabao - secondo i media cinesi, e non solo - è atterrato a Copenhagen nella veste di risolutore di problemi.
L'arrivo del premier cinese ha infatti cambiato i racconti dalla capitale danese: dal gelo cinese si è passati all'incertezza. È pur sempre qualcosa, anche se i preparativi per un vertice delicato si erano già avuti a Pechino. I cinesi non si interessano alle questioni mondiali, finché in qualche modo non viene intaccato l'amor proprio nazionale. Finora nei blog o nei forum on line non si assiste a commenti vibranti, ma a tante parole di speranza. Tutto concentrato sulla Cina: pochissime righe sugli scontri e le proteste. Tanta retorica, come nelle comunicazioni ufficiali dell'entourage cinese da Copenhagen: «La Cina attribuisce priorità massima alla questione climatica» si legge.
In attesa che l'agenda vada avanti, come affermato da Wen Jiabao, in Cina si osserva e si tace. Il Global Times ha lanciato l'hot forum sul caso, ma la discussione insegue i temi ufficiali e lancia strali, al massimo, contro i paesi ricchi. E dire che in Cina invece il dibattito tra riviste e personaggi di rilievo si è avuto prima di Copenhagen: a ridosso della visita di Obama era scoppiato un mini scandalo legato ad alcune cifre pubblicate da China Daily e riprese dal Financial Times che aveva scritto come la Cina fosse «in corsa per assumere la leadership verde mondiale».
Tanto che in un editoriale del Nanfangzhoumo, di solito cautamente indipendente nelle sue inchieste, non si andava per il sottile, sottolineando l'impegno cinese a fronte della «mancanza di impegno concreto da parte degli Stati Uniti», nonché l'affermarsi della nuova leadership cinese in tema di cambiamenti climatici, a fronte di un declino yankee. «Al momento, era scritto, l'Ue si è impegnata a ridurre le emissioni del 20%, il governo giapponese di Hatoyama si è impegnato a una riduzione del 25%. La riduzione delle emissioni da parte cinese è condizionata: sono i capitali dei paesi sviluppati a dover sostenere le tecnologie».
Sulla questione si interrogano i giovani di Cop15China, sul cui sito si sono registrati molti volontari cinesi giunti a Copenhagen. Dopo aver chiarito quanto la Cina stia facendo sforzi immani per il miglioramento climatico, si chiedono: «la Cina può essere ancora considerata un paese in via di sviluppo?»

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